Canto d'amore alla follia: l'odore della ruga che hai sopra la bocca

 



In quel fantasmagorico laboratorio di teatro verissimo, in quella fucina di bellezza e passioni, in quel nido di tenebra e luce, di anima e ragione che è il Teatro Studio a Rovigo, gestito e diretto dal Teatro del Lemming di Massimo Munaro, è stata organizzata una rassegna di teatro contemporaneo “Visioni” in cui ha trovato spazio (dico subito, fortunatamente) uno spettacolo sui generis. “Canto d’amore alla follia” ne è il titolo, e il dramma che ci si ritrova quasi in trance a vivere, assistendovi, risulta fortemente suggestivo, terribile (come la tragedia mostra il lato terribile della vita, i dolori e le angosce dell'umanità) e nello stesso tempo fortissimamente struggente. Sta circolando nei cosiddetti teatri di “nicchia” da qualche anno, a cura di quegli “Animali Celesti” diretti da Alessandro Garzella, che propongono lavori frutto di impegno artistico e civile e di ricerca sull’alterità, sull’irrazionale e sulla sofferenza, e insomma su ciò che fa parte in modo essenziale e non certo secondario del nostro essere umani, e lo spettacolo che ne vien fuori è bellissimo!

Vi ho ritrovato immagini, personaggi e temi che ho sempre amato: l’assurdità di alcune pièce di Eugène Ionesco (in particolare mi è venuta in mente La Lezione), i personaggi sconfitti, nudi e arditi di Samuel Beckett (certo, “aspettando Godot” ma anche “L’ultimo nastro di Krapp” o “Finale di partita”), i sogni senza senso, i gesti o gli sguardi o solo l’energia di alcuni momenti o personaggi messi in scena da Pina Bausch nei suoi spettacoli, che più che altro erano emozioni coaugulate, sogni, pezzi di vita materializzata e mostrata nella sua oscena, ridicola ma lirica realtà.

In scena due figure ossessionate da subbugli visionari, e due interpreti veramente bravissimi: lo stesso Alessandro Garzella con la sua forza, la sua tensione, il suo eroismo macrabro e sensuale, accompagnato da una splendida Francesca Mainetti che sa dosare i toni, le parole, gli sguardi, i ritmi e sa costruire quella poesia emozionale che solo il teatro talvolta sa suggerire, sa evocare, sa far vivere.


È scritto nella pagina web dalla compagnia:

Forse una coppia di fuoriusciti da qualche luogo di cura, o da uno dei tanti zoo nascosti nelle periferie umane di questo mondo. Lui: storpio e invasato, guerriero di battaglie perse, irriverente e solo. Lei: forse badante di mercimoni, vecchia Lolita decaduta nell’accudire disperazioni altrui, oppure dea, vocata alla grazia più pura del donarsi. Entrambi prede di fobie oniriche e perverse, forse perché costretti a esorcizzare lo sciacallaggio del dolore, seguendo le orme di quell’alterità che così tanto spaventa tutti e attrae. Storie evocate con accenni, con crudezza e pudore, per la violenza che contengono. O forse perché i protagonisti di quest’opera, provocatoriamente, mettono in discussione la cosiddetta normalità dei più. Il senso del giusto e dello sbagliato. I significati di saggezza e stupidità, lo stesso principio di realtà e di sogno. E forse saranno proprio queste due strampalate figure, col canto dei loro corpi, con l’ostinato amore del loro sogno, con la saggezza della loro follia, a farci ritrovare il profumo che c’è nell’esistenza di tutti noi. Imparando che la vita va inventata, quasi ogni giorno. Fin dove amore lotta e ti rivolta. Tra il circo e il melodramma.

 

Se vi capita non perdetevelo: potrete così anche voi sentire l’odore della ruga bellissima che c’è sopra la bocca.

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