INFERNO parte prima di Nekyia: un'esperienza da vivere

 


Assistere ad uno spettacolo di Massimo Munaro del teatro del Lemming non è mai semplicemente assistere ad uno spettacolo: è vivere un'esperienza. Un'esperienza che muove tutti i nostri sensi e scava nelle profondità del nostro spirito e della nostra esistenza.

In questo, in modo straordinario (proprio nel senso di extra ordinario) il fine del regista e del suo teatro di Rovigo, esplicitamente ormai posto da molti anni (lo spettacolo è una riproposizione di una produzione del 2006) e ripetuto anche questa volta nel "foglio di sala" (distribuito rigorosamente solo all'uscita!) sta nel fatto di ribaltare il teatro tradizionale, quello dello spettacolo - del teatro che si fa vedere -, per riportarlo alla sua funzione originale, rito, cerimonia, per la rivelazione della verità.

E nel caso di Nekya (parte prima - Inferno) andato in scena questa sera a Rovigo nel Teatro Studio dove il Teatro del Lemming dimora da molti anni, mi sembra che l'operazione sia riuscita sorprendentemente e straordinariamente: sorprendentemente perché si è riusciti a destrutturare il teatro consueto, quello della rappresentazione e della finzione. Così tanto si è riusciti nell'operazione di costituirsi come regno dell'anti-finzione", che il pubblico alla fine si è astenuto dall'applaudire e questo è - credo - la prova provata che Munaro è riuscito a costruire quel non-teatro della "rivelazione" di cui scrivevo poco fa e di cui egli va predicando da molti anni. Straordinariamente perché ciò che si vive nello spettacolo è non "ordinario" anche nel senso di non poterlo in alcun modo ri-proporre se non nell'hic e nel nunc del Teatro Studio, del Teatro del Lemming. Forse è proprio qui il limite dell'operazione di Nekya come di tutte quelle produzioni che il Teatro del Lemming di Munaro propone costantemente da molti anni (che mi affascinano ma che non mi convincono mai del tutto). Non è insomma - forse al contrario di ciò che ci si propone originariamente - un teatro per tutti, un teatro popolare, ma risulta assolutamente un teatro aristocratico, "per pochi" (tutti gli spettacoli - e forse non a caso, inconsciamente - prevedono sempre un numero limitatissimo di spettatori).

Chiudo queste mie osservazioni che ho preferito disegnare sulla carta appena tornato a casa, quasi come "pharmakon" (φάρμακον) dopo aver toccato la verità, con alcuni cenni tecnici. 

Alcune invenzioni sceniche sono strepitose e originalissime (si badi però che sono invenzioni sceniche e cioè sono tecnica, proprio quella tecnica che "lo spettacolo" vorrebbe rifiutare!). Il primo: il fatto di proiettare ad un certo punto i volti degli spettatori che così "vedono" se stessi nella rappresentazione. È questo un "gioco delle parti" costante nella drammaturgia e nella filosofia del teatro del Lemming ma l'impressione che il pubblico ne ricava è certamente straniante, tragica e terribile perché il gioco scenico si "costituisce come riflesso della nostra infera condizione quotidiana". 

Il secondo: il fatto di proiettare l'immagine di corpi e di volti su corpi. Anche questa invenzione colpisce molto lo spettatore non solo per le forme nuove che prende il corpo manipolato e utilizzato in questo modo così originale, ma perché l'immagine che ne vien fuori (come è scritto nel pieghevole di sala) effettivamente "suggerisce uno sprofondamento dell'anima nel regno dei morti, del sogno e dell'inconscio".

Spettacolo da vedere, anzi da vivere.

link al Teatro del Lemming https://www.teatrodellemming.it/visioni22-inferno

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