Una notte (umana) fuori tempo massimo: la notte poco prima delle foreste


No, non sono propriamente quello che si dice un perfetto politically correct, e perciò dirò chiaramente che lo spettacolo non mi è piaciuto per niente.
Al di là di chi diceva la stessa cosa al compagno di poltrona, a bassa voce, alla fine dello spettacolo, quasi vergognandosene, al di là della bravura a tratti straordinaria di Pierfrancesco Favino.

Del testo, certo drammatico e talvolta commovente, non se ne sentiva il bisogno. Oggi. Oggi che basta aprire la televisione o le pagine di un quotidiano per trovare la miseria e la morte interiore, lo squallore e la desolazione. Negli occhi dei migranti, nelle voci degli stranieri.
Oggi è facile imbattersi negli stessi gesti, nella stessa cadenza, negli stessi sguardi, nelle stesse parole rappresentate ne "La Notte poco prima delle foreste": basta fermarsi con l'accattone "straniero" all'entrata di un supermercato o chiacchierare, finestrino abbassato, con lo storpio (spesso finto) ai semafori degli incroci.

La pazzia che sale in un climax vertiginoso, è una follia certamente generata da una condizione degradata e umanamente non tollerabile: ma il teatro deve portare in scena e mostrare ciò che è difficile da immaginare, ciò che non si può vedere facilmente e oggi - purtroppo - le miserie sono oscenamente a portata di mano e non serve a nulla mostrarle ancora. Si rischia di mortificarle e banalizzare il dramma e di provocare una sorta di effetto contrario. Piuttosto che generare pietà, si corre il rischio di provocare il vomito, la nausea, la sazietà... La banalità e la noia.

Perciò a volte è meglio astenersi, facendo proprio un pensiero di un grande filosofo del '900: "Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere".

Si cantano gli ultimi quando non hanno voce. Quando sono ancora fantasmi. Musulmani alla Primo Levi. E' per questo che lo spettacolo portato in scena (il testo è di Bernard-Marie Koltès) sembra essere non tanto fuori dal tempo ma fuori tempo massimo. In effetti è stato scritto nel 1977 poco dopo un altro testo che un poeta di casa nostra mise in rima e in musica con una delicatezza che Bernard-Marie Koltès peraltro a parer mio non conosce:

Uomini senza fallo, semidei
che vivete in castelli inargentati
che di gloria toccaste gli apogei
noi che invochiam pietà siamo i drogati
Dell'inumano varcando il confine
conoscemmo anzitempo la carogna
che ad ogni ambito sogno mette fine:
che la pietà non vi sia di vergogna

[...]

Uomini, cui pietà non convien sempre
mal accettando il destino comune,
andate, nelle sere di novembre,
a spiar delle stelle al fioco lume,
la morte e il vento, in mezzo ai camposanti,
muover le tombe e metterle vicine
come fossero tessere giganti
di un domino che non avrà mai fine
Uomini, poichè all'ultimo minuto
non vi assalga il rimorso ormai tardivo
per non aver pietà giammai avuto
e non diventi rantolo il respiro:
sappiate che la morte vi sorveglia,
gioir nei prati o fra i muri di calce,
come crescere il gran guarda il villano,
finchè non sia maturo per la falce.
(De André, Recitativo, 1968)

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